La storia di una grave malattia neuromuscolare, le paure, i
disagi, la tracheotomia e il “ritorno alla vita”, con la voglia, oggi,
di uscire a “veder gente”. Il tutto raccontato in prima persona, con
stile sempre estremamente vitale e talora con la giusta dose di ironia
(e autoironia), anche quando le situazioni diventano quanto mai
drammatiche
«Prima del ricovero – ci ha scritto Maria Angela Caroppo, presidente della UILDM di Udine (Unione
Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) – il nostro socio Diego non
usciva più di casa da anni, lui che era un uomo attivo e impegnato
politicamente. Ora è rinato e io mi sento più leggera».
È bello, questo lungo racconto in prima persona di una malattia neuromuscolare,
perché, con stile sempre estremamente vitale e talora con la giusta
dose di ironia (e autoironia), tratta anche una serie di situazioni
quanto mai drammatiche. Ben volentieri lo pubblichiamo integralmente.
Era la metà di dicembre del
2009. Da alcuni giorni
non stavo bene. Mangiavo poco, febbre continua, catarro e non riuscivo a
deglutire. Sarà l’influenza, si pensava, ma la saturazione bassa –
nonostante fossi collegato al ventilatore tramite mascherina – non era
un buon segnale.
Infatti, una sera mi trovai in grosse difficoltà respiratorie. L’affanno
sempre più forte e la saturazione bassa spinsero i miei a chiamare gli
operatori del 118 che, visto il mio quadro clinico, decisero di portarmi
al Pronto Soccorso.
Qui raggi e TAC diagnosticarono una
polmonite bilaterale. Ricordo il vociferare tra i dottori e quando captai la frase «va intubato e portato in terapia intensiva», fu il panico.
Siamo tutti laureati!
Ricordo che cominciai, non so perché, a dare disposizioni ai miei su
come e a chi dovessero essere date le mie cose. «Ma che fai,
testamento?», mi chiese mio cognato. «Non si sa mai», risposi.
Fui portato in una stanza, dove poco dopo entrarono dottori e infermiere
che mi dissero di stare tranquillo. Una parola! Non riuscivo a
respirare, stavo per essere intubato e su quel lettino mi faceva male
l’osso sacro e, secondo loro, avrei dovuto stare sereno e tranquillo!
«Ora ti togliamo la mascherina e ti intubiamo, così potrai respirare meglio», mi informò il dottore.
Ricordai loro di fare attenzione perché senza mascherina avevo
pochissima autonomia. La risposta fu: «Qua dentro hai a che fare con
tutte persone laureate!». Ah beh, allora… Poi non ricordo nulla.
Mi svegliai in una stanza piena di luce. Sentivo qualcosa in bocca, ma
non dava più di tanto fastidio. Vedevo un tubicino entrare dal naso e
qualcuno che alla mia destra trafficava nel mio collo. Scoprii più tardi
che mi avevano applicato il “centrale”, una sorta di catetere
attraverso il quale è possibile non solo iniettare i medicinali, ma
anche effettuare i prelievi di sangue per gli esami periodici, evitando
così il fastidio di doversi sottoporre alle punture venose.
Cominciò in quel momento la mia permanenza (e avventura) alla
terapia intensiva della
Clinica Universitaria di Udine.
Tranquillo, è tutto nella norma…
La prima cosa che mi procurò un certo sgomento fu il rendermi conto che
non riuscivo a parlare.
Cercavo con gli occhi di attirare l’attenzione di dottori e infermieri,
finché non riuscii ad emettere con la bocca uno strano rumore che
sarebbe diventato l’incubo e il tormento del personale infermieristico.
Prima di continuare, va spiegato che in terapia intensiva ci sono
persone in coma, trapiantati, pazienti in gravi condizioni e quello che
conta e vale per gli operatori sono i
parametri e i
valori espressi dai macchinari. Sottolineo questo perché il personale è “portato” a interagire non con te –
paziente e persona -, bensì con i
macchinari
che ti stanno monitorando. O meglio, ha più valore il parametro
espresso dal macchinario che le sensazioni o quello che ha da dire il
paziente.
Chiamavo (con il suono di cui ho parlato prima) perché ero in difficoltà
con il catarro e arrivava qualcuno che senza guardarmi si piazzava
davanti al monitor ed esclamava «Badolo, tranquillo, i parametri sono
nella norma!». Saranno anche nella norma,
ma non il catarro! Ma come farglielo capire?
Avevo in quei giorni bisogno di vedere attorno a me sempre qualcuno.
Vedere dottori, infermieri o personale delle pulizie mi faceva stare
tranquillo. In caso di bisogno – pensavo o cercavo di convincermi –
c’era qualcuno a cui rivolgere lo sguardo. Ed è per questo che le notti
erano angosciose. Il personale si chiudeva in una stanza (tanto c’erano
gli allarmi) ed io entravo nel panico. Stavo per ore con la bocca piena
di saliva e catarro (questo le pur moderne apparecchiature
non lo segnalavano) e quando suonava l’allarme del vicino o passavano a fare un giro, allora si accorgevano che avevo bisogno di aiuto.
Le uniche notti in cui ho dormito sono state quelle in cui i turni li faceva una gentilissima e sensibile infermiera,
Sabina
che, vistomi in ansia, si era presa l’impegno di passare ogni
dieci-quindici minuti a controllare che tutto fosse a posto. Se mi
svegliavo era lì o, come promesso, arrivava subito dopo.
In terapia intensiva le luci erano sempre accese e oramai avevo perso la cognizione del tempo.
I giorni passavano. La mattina un po’ di fisioterapia, i soliti prelievi
e le consuete incomprensioni con le infermiere (soprattutto una) e
infermieri (anche in questo caso soprattutto uno). Non dev’essere facile
lavorare in certi reparti, me ne rendo conto, ma la loro freddezza mi
spaventava.
Sono stati
quindici giorni duri, sempre nella stessa posizione.
Due pensieri mi assillavano. Il primo era quello di non farcela e il secondo di
quanto fossi stato sciocco.
Sciocco perché oramai erano anni che non facevo una visita di
controllo. Più volte avevo risposto «la prossima volta» all’invito di
recarmi a visite e analisi. Ero consapevole che ciò non avrebbe di certo
evitato la polmonite, ma in quei giorni quello era il pensiero. Quanto
meno sarei arrivato a tutto questo con maggiori informazioni. Meno
impreparato.
Fin dall’inizio i miei avevano contattato il dottor
Antonio Peratoner,
già primario della Pneumologia dell’Istituto di Medicina Fisica e
Riabilitazione Gervasutta, che per anni aveva seguito il mio caso e che
da persona disponibilissima qual è, aveva sempre risposto e dato
preziosi consigli. Il giorno del ricovero è stato addirittura chiamato a
notte fonda e, nonostante questo, si è adoperato in maniera
incredibile. Ed è stato lui a pronunciare, nei miei confronti, la parola
“tracheo”.
Per un attimo è stata come una morsa allo stomaco, una frustata, una
scossa. Ma solo per un attimo. Sorprendentemente, dopo un primo momento
di smarrimento, è subentrata un’inaspettata calma. «Se bisogna farla,
facciamola», era ciò che pensavo. Segno che l’approccio del dottor
Peratoner all’argomento era stato quello giusto e che le parole e i toni
utilizzati erano stati rassicuranti. Segno anche che
se i medici ben illustrano, spiegano e motivano le scelte e le cure da fare, queste (pur non essendo piacevoli) fanno meno paura.
Ricordo solo i preparativi, gli attrezzi, il monitor, il materiale che
sarebbe stato utilizzato e poi più nulla… Quando mi sono risvegliato, la
prima sensazione è stata quella piacevole di sentire la
bocca libera. Non c’era più il tubo di gomma dell’intubazione. Respiravo bene. Nessun dolore. Da quel momento in poi, termini come
cannule,
controcannule,
sondini e
aspirazioni sarebbero diventati familiari.
Purtroppo, non riuscendo a deglutire bene e per poter rimuovere il
sondino naso-gastrico, si decise, dopo la tracheo, di applicare anche la
PEG (
gastrostomia endoscopica percutanea),
per l’alimentazione e l’idratazione. Anche in questo caso non ricordo
nulla se non il “giretto” dalla terapia intensiva al reparto di
gastroenterologia. Sospettando infatti che la polmonite fosse
ab ingestis – causata cioè da frammenti di cibo finiti in trachea – non mi davano nulla per bocca.
Ma ciò che in quei giorni più mi pesava era il fatto di vedere poco i
familiari, una volta al giorno e solo per un’oretta. Avrei voluto sempre
qualcuno vicino, ma non era possibile.
E così, superata la fase acuta, si programmò finalmente il trasferimento per la riabilitazione all’
Istituto Gervasutta, con un’ambulanza della Croce Rossa.
Vi sembra uno in sofferenza?
Premessa: quando si stacca il ventilatore dalla rete elettrica, entra in funzione la
batteria.
Un sensore acustico avvisa appunto che si sta lavorando in “modalità
batteria” e sul monitor appare il relativo simboletto. L’autonomia è di
circa due ore. Quando arrivarono gli operatori della Croce Rossa, il
ventilatore era già stato staccato dalla rete elettrica. Mi misero così
sulla barella, chiesero informazioni sulla durata della batteria e…
partenza!
Vladimir
Kosic, allora assessore alla Salute della Regione Friuli Venezia
Giulia, inaugura nel 2008 un nuovo padiglione all’Istituto Gervasutta di
Udine
Arrivati in ambulanza, attaccarono, per sicurezza, il ventilatore
all’impianto elettrico. Poco dopo, però, non so per quale problema,
l’infermiere a un certo punto staccò la spina e naturalmente il sensore
acustico avvisò che si stava lavorando in “modalità batteria”, con
relativo simboletto sul monitor. Tutto nella norma. Quelli della Croce
Rossa, però,
non lo sapevano! Panico nei loro occhi.
Cercai di avvisarli con il labiale che non c’erano problemi, che era
tutto a posto, ma i miei tentativi di spiegazione vennero interpretati
come
agitazione. «Cavolo, ragazzi, c’è un problema con
il respiratore!». Ed io: «Noo, è in funzione la batteria». «C’è il
simbolo della batteria, forse è finita». Ed io: «Nooo, ha due ore di
autonomia», ma niente, non riuscivo a farmi capire. «Chiama il 118 e
chiedi autorizzazione al Codice Giallo». «Codice Giallo negato». «Cosa?
Ma siamo impazziti? Ora chiamo io», e mentre componeva il numero,
rivolto a me diceva: «Stai calmo, non agitarti, vedrai che tutto si
risolve». Cominciai a
sorridere, pensando che vedendomi
così si tranquillizzassero. Mi sbagliavo. Forse ho un sorriso che non
convince, fatto sta che la tensione cresceva.
«Perché cavolo non ci date il permesso al Codice Giallo? Ho uno con la
tracheo e il respiratore ha problemi». A quel punto ridevo e di gusto,
ma niente, non li tranquillizzai. Poco dopo sentii la sirena e
l’ambulanza aumentare la velocità. «Coraggio, stiamo arrivando». Scesi
dalla vettura sotto una
fitta nevicata. Poi, la corsa
nei corridoi fino al reparto. I miei mi stavano aspettando preoccupati e
vedendo arrivare l’ambulanza con la sirena e poi la corsa e
l’agitazione del personale, temevano fosse successo qualcosa di grave.
Ma a mia sorella bastò guardarmi in faccia per capire che stavo bene.
Infatti, una volta entrati nella stanza, gli operatori spiegarono che
c’erano problemi col respiratore e che avrei potuto essere in
sofferenza. «E questa vi sembra la faccia e l’espressione di uno in
sofferenza?», esclamò un’infermiera del Gervasutta guardandomi.
A questo punto mia sorella spiegò agli operatori come funzionava il
ventilatore, il perché suonasse e che bastava zittire l’allarme. Un
attimo di silenzio, sguardi che si incrociarono e poi… una sonora risata
generale.
Tutt’altra vita al Gervasutta
Arrivato al Gervasutta e portato nella stanza, la prima piacevole
sorpresa fu la finestra. Sì, il mio letto era vicino alla finestra.
Rivedevo in qualche modo
il mondo. Stava nevicando. Alberi e tetti imbiancati. Uno spettacolo! Il mio “soggiorno” al Centro di Riabilitazione cominciava bene.
La stanza era di due posti, ma c’ero solo io. L’indomani, però, fui
trasferito nella camera vicina, molto più grande (quattro posti) e
spaziosa. Ero il solo a occuparla e anche in quel caso ero vicino alla
finestra. Il morale non era ancora dei migliori, ma lì almeno mi si
poteva venire a trovare quando e quanto si voleva, non c’erano orari. E
soprattutto era permesso – cosa per me importantissima – “farmi la
notte”, compito nel quale si sarebbero alternati mia madre, mia sorella,
la zia Delia e Massimo. Da quel momento in poi, infatti, la mia
famiglia si organizzò per far sì che neppure per un istante fossi
lasciato solo. Mia madre stava finché non arrivava la zia Maria, che si
fermava fino all’arrivo di Camelia, che a sua volta non andava via
finché non arrivava mia sorella. E così via, con mio padre e mio cognato
a fare da “autisti”.
Mi presentarono
Mara, la fisioterapista, che sarebbe
risultata fondamentale per il mio recupero, una ragazza straordinaria di
enorme sensibilità, sempre gentile e pacata, preparata e competente.
Conobbi anche il dottor
Perrotta che avrebbe seguito il mio caso. Cominciai così la fisioterapia e feci la conoscenza con l’
In-Exsufflator, detto anche
“macchina della tosse”.
Parlai, parlai ed ancora parlai…
Devo molto al paziente e ottimo lavoro di Mara, Fabiana e Franco (questi
ultimi già li conoscevo). La prima curava l’aspetto fisioterapico e
respiratorio, la seconda la gestione del ventilatore e i prelievi per
l’emogasanalisi. Sono persone soprattutto
capaci di ascoltare.
Comunicavo con il labiale, ma mai una volta che mi dicessero «non ti
capisco», com’era invece accaduto in terapia intensiva. «Con calma, non
c’è fretta, una parola alla volta…».
Cominciarono anche le visite del primario dottor
Patruno. Va detto che la tracheo che utilizzavo aveva una
cannula cuffiata,
ovvero che il tubino inserito in trachea aveva un “palloncino” esterno
gonfiato ad aria, che poggiava sulla parete tracheale per impedire fughe
d’aria o inalazioni accidentali. L’obiettivo della riabilitazione era
quello di rimuovere quanto prima la tracheo, per tornare alla
ventilazione tramite mascherina nasale.
Si cominciò così con il tappare la cannula per farmi respirare con la
mascherina, ma il primo tentativo non andò bene. Mi agitai. Mara e
Fabiana mi dissero di stare tranquillo e che avrebbero riprovato solo se
me la sentivo. Che era del tutto normale qualche difficoltà all’inizio.
Mi fecero soprattutto notare – io nell’agitazione non me n’ero accorto –
che in quei pochi istanti con la tracheo momentaneamente scuffiata, ero
riuscito a parlare. Questo mi spronò a riprovare. Andò decisamente
meglio. Stetti un paio d’ore collegato tramite mascherina nasale e
parlai, parlai ed ancora parlai, ponendo decine di domande.
Da qui si prese quindi la decisione di lasciarmi la cannula scuffiata,
durante il giorno, e di cuffiarla solo per la notte. Operazioni, queste,
del tutto indolori, semplici, che si fanno in un attimo.
Potevo parlare e nella stanza non ero neanche più solo. Nel letto
vicino, infatti, era arrivato un signore con problematiche respiratorie e
di fronte un dolcissimo “nonnetto”, anche lui con tracheo e PEG. Con
loro e si è instaurato un ottimo rapporto, così come tra le rispettive
famiglie, rapporto che continua tuttora.
Pochi giorni dopo, il dottor Patruno si sedette accanto a me, spiegandomi per un’ora buona perché avesse deciso di lasciarmi
definitivamente la tracheo. Mi illustrò in maniera dettagliata i pro e i contro, con i primi decisamente superiori ai secondi.
Quelli che stavo facendo erano passi in avanti importanti. Ma la paura
era ancora ben presente ed ero in particolare terrorizzato dall’idea di
dover stare sempre a letto. Mi rendevo conto, però, che il mio
preoccuparmi e quel chiedere continuamente “cosa sarebbe stato di me”,
faceva soffrire i miei. Stavano facendo così tanto per me e io li
ricambiavo con un broncio e una continua “luna storta”? Dovevo reagire,
fare qualcosa. E così fu!
Voglia di sorridere
Da quel momento mi concentrai solo ed esclusivamente sugli aspetti
positivi, anche se i buoni propositi rischiarono di crollare, quando
decisero di provare a
mettermi in carrozzina. Ricordo
benissimo di avere resistito assai poco al primo tentativo. Ero
disperato. Poi, giorno dopo giorno, sono riuscito a resistere sempre
più, fino a starci per ore e ore. E così il sorriso tornò.
Cominciai anche la riabilitazione con la logopedista. Dato che l’esame sulla
deglutizione
era andato bene, c’era la possibilità di riprendere a mangiare qualcosa
per bocca, ciò che oggi faccio regolarmente e senza problemi. Mi
tolsero anche il catetere per la pipì e quello venoso centrale.
Divenni più allegro e a chi mi chiedeva come stavo, rispondevo: «Beh,
oggi va meglio!», «Non mi posso lamentare». Iniziai a ridere e a
scherzare con i vicini di letto, ad interessarmi del loro stato di
salute, a chiamare le infermiere quando loro non potevano, mentre io,
essendo in carrozzina, avevo la possibilità di andare a cercarle. Ridevo
con il personale infermieristico, giravo per il corridoio, incontravo
altre persone ricoverate e ascoltavo le loro storie.
Quanti amici!
L’esperienza al Gervasutta mi ha
profondamente cambiato.
Ho visto tanta sofferenza, dolore, persone arrabbiate col mondo intero e
altre che pur essendo in situazioni difficili, dimostravano una
serenità incredibile.
Una parentesi doverosa voglio dedicarla al “clima familiare” del
Gervasutta: bravissimi gli infermieri e le infermiere e pazienti sempre
con il sorriso. Ricordo momenti molto belli passati con loro. Quel
clima, l’ottimo lavoro della fisioterapista
Mara, le lunghe e belle chiacchierate con lei e l’altra operatrice
Fabiana, la radiolina con le cuffie prestata dall’amico
Luca,
che veniva spesso a leggermi gli articoli dei giornali e che mi dava
modo di discutere quando i miei familiari e gli amici venivano a
trovarmi, il computer – fondamentale per riallacciare quei rapporti
“telematici” che riempivano buona parte della giornata -, tutto stava
dando il suo frutto.
Era bello “risentire” gli amici del forum (un forum di discussione di un quotidiano nazionale) e soprattutto
Camilla,
che durante la degenza stampava i messaggi e me li spediva, per darmi
modo di capire quante fossero le persone che chiedevano mie notizie e
quanti si preoccupassero per me. I suoi sproni a non mollare, il lettore
MP3 con le cuffie e le decine di canzoni che mi aveva spedito quand’ero
ancora in terapia intensiva e che tanta compagnia mi aveva fatto, le
sue e-mail e le telefonate… I tanti messaggi di auguri e solidarietà dai
“forumisti”, le e-mail e la sorpresa e la gioia di un simpaticissimo
telegramma di
Gianni, le telefonate e i messaggi di
Augusto, tornare a parlare di politica, arte, libri e musica con
Alice, di cinema e letteratura con
Francesco, anche loro conosciuti tramite il forum… E le domeniche pomeriggio, con gli amici e i parenti che riempivano la mia stanza…
Pian piano stavo riprendendo un po’ della quotidianità alla quale ero
abituato, quelle piccole abitudini che facevano parte delle mie
giornate. E tutto ciò mi trasmetteva tranquillità e sensazioni positive.
«Se riesco a farlo qui - pensavo – posso riprendere a farlo anche a
casa!».
La “mia salvezza”
E così quella
tracheo che all’inizio temevo mi avrebbe
pesantemente condizionato la vita, si è poi rivelata la “mia salvezza”.
Grazie ad essa, infatti, posso dire di essere letteralmente rinato e
anche la gestione, alla prova dei fatti, si è rivelata
più semplice di quel che pensavo. Oggi, addirittura, non serve nemmeno medicarla ogni giorno.
Fatto sta che sono ottimamente ventilato, sto bene, ho messo su qualche
chiletto e mi è tornata una gran voglia di uscire e di andare a spasso. E
tutto ciò anche e soprattutto
grazie alla mia famiglia,
che da sempre mi assiste in maniera ottimale. Ai miei genitori, a mia
sorella, sempre vicina e presente, a mio cognato che cura gli “aspetti
burocratici” e in generale al clima familiare, nel senso che a casa mia
si è sempre riso tanto. Certo, i brutti momenti non sono mancati, ma
l’ironia, il saper anche ridere dei propri limiti è importante. E
questo, secondo me, è stato ed è un ottimo “farmaco”, naturale, sicuro e
senza controindicazioni.
E grazie, infine, a un gruppo di straordinari amici del mio paese sui quali posso sempre contare.
Socio della
UILDM di Udine (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Il presente testo è apparso in tre puntate in «
DM»
(nn. 176, 177 e 178), periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana
Lotta alla Distrofia Muscolari) e viene qui ripreso per gentile
concessione, con lievi riadattamenti al contesto.
fonte:
http://www.superando.it/