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Ilaria

venerdì 19 ottobre 2012

Disabili in ospedale. La denuncia di una mamma: "La situazione è disastrosa"

Marina Cometto, madre di una donna di 38 anni con gravissima disabilità e fondatrice dell'associazione Claudia Bottigelli racconta le disavventure: "Due medici si rifiutarono di prendere in cura mia figlia, disabile grave, uno le negò visite a domicilio". In Pronto soccorso problemi di accesso, comunicazione e privacy.
ROMA - Incapacità di comunicazione, mancanza di privacy, inadeguata competenza del personale medico e sanitario: sono solo alcune delle gravi criticità che il sistema ospedaliero italiano - oggi sotto i riflettori della cronaca - riserva ai pazienti disabili. A raccontarci la sua esperienza è Marina Cometto, mamma di una donna di 38 anni con gravissima disabilità e fondatrice dell'associazione Claudia Bottigelli. "Quando mia figlia era più piccola e avevamo poca esperienza - ricorda Marina - ci recavamo molto spesso nelle strutture ospedaliere o in pronto soccorso: la sua patologia è complessa e il supporto sanitario è fondamentale per offrirle almeno la possibilità di vivere senza dolore fisico e per scoprire per tempo le possibili complicanze. Negli ultimi anni i ricoveri sono perlopiù programmati e mediamente una volta all'anno passiamo qualche giorno in ospedale per le visite ambulatoriali e gli esami preventivi".
Sta emergendo in questi giorni l'inadeguatezza degli ospedali italiani nell'accoglienza e la cura dei pazienti: qual è la sua esperienza?
E' disastrosa la situazione dell'accoglienza e della cura negli ospedali per i pazienti con esigenze particolari come le persone con disabilità. C'è innanzitutto un problema di accesso: negli ospedali pubblici torinesi, per esempio, non ci sono quasi mai sollevatori per disabili, e quando ci sono non sempre gli operatori sono in grado di farli funzionare. Capita spesso che persone disabili vengano sottoposte a esami non validi perché effettuati seduti in carrozzina, non essendoci i sollevatori per spostarli dalla carrozzina alla barella.
Quali sono le altre criticità?
Per prima cosa, la comunicazione: quando un paziente ha difficoltà o assenza di comunicazione verbale, è necessario che i medici si affidino all'esperienza del care-giver. Purtroppo spesso questo non accade e bisogna imporsi con forza per far capire che chi non parla o non si lamenta non è perché non ha dolore, semplicemente ha un altro modo per dimostrarlo: può essere un irrigidimento, un aumento delle crisi epilettiche, un batter di ciglia, un rilassamento insolito. Poi c'è il problema della privacy: se devo cambiare il pannolone a mia figlia in Pronto Soccorso, lo devo fare davanti a tutti. E infine c'è un grande problema di competenze.
Qualche esperienza significativa?
Anni fa ho accompagnato Claudia al pronto soccorso perché secondo me aveva dolore: si irrigidiva, non voleva mangiare, era seria. L'hanno messa in barella in attesa della visita, con codice verde. Dopo mezz'ora di attesa ho sollecitato e mi è stato detto non è grave. "Mi scusi - ho chiesto all'infermiere - come fa a capire se è grave se lei non è i grado di spiegarsi? Non sarà grave, ma è un caso urgente, perché solo con gli esami diagnostici potrete capire cos'ha". Dopo una radiografia all'addome, mi hanno detto che probabilmente erano calcoli alla cistifellea: le hanno dato un calmante e mi hanno spiegato che saremmo rimaste in P.S. tutta la notte, con Claudia sulla barella, senza neppure un lavandino per lavarmi le mani prima di cambiarle il pannolone, senza un cuscino per sollevarle un po' la testa e darle da bere. Ho firmato e l'ho portata a casa. Il giorno seguente ho telefonato a un Centro diagnostico privato per fare un'ecografia: hanno confermato i calcoli, aggiungendo che doveva essere operata con urgenza. E' stata operata in un ospedale convenzionato, perché le stanze erano a due letti con bagno attiguo, che è per noi fondamentale. Ci sono state complicazioni e siamo rimaste in ospedale quasi 1 mese. Dico "siamo", perché noi ci ricoveriamo in due, visto che nessun ospedale, pubblico o privato, è in grado di offrire l'assistenza necessaria a persone con gravissima disabilità come Claudia, per cui io sono la sua ombra!
Come si relazionano i medici, nei loro studi o negli ospedali, con i pazienti disabili?
Nessuno cura volentieri una persona con disabilità complessa, vista la grande responsabilità che comporta: triste dirlo, ma è così. Non c'è capacità né volontà di dedicare più attenzione a questi pazienti. Un esempio? Alcuni anni fa, ho deciso di cambiare il medico di base, perché con il nostro avevamo avuto problemi per le visite domiciliari per noi fondamentali. Mi sono recata presso un primo studio medico, ho aspettato il mio turno, ho chiesto al medico se aveva posti disponibili e mi ha risposto di sì. Quando però gli ho spiegato di Claudia e delle sue necessità ha detto di no. Sono andata da un altro medico sempre in zona, stesso iter e spessa risposta, a questo punto sono andata all'ASL ho chiesto del medico capo: ho raccontato ciò che ci succedeva e ho chiesto che un medico me lo cercassero. La dottoressa ha telefonato e fatto la richiesta, che ovviamente è stata accettata. Questo medico ha messo Claudia in Apd (assistenza domiciliare programmata), cioè visite di routine a scadenza fissa. Ho segnalato la mia storia alla Regione, ma il medico che ci negava le visite a domicilio è ancora al suo posto.
Di quali attenzioni avrebbero bisogno le famiglie come la vostra, da parte degli ospedali?
Credo che bisognerebbe prevedere per le persone con disabilità, specie quelle complesse, un percorso dedicato, che dovrebbe disporre di almeno una stanza in P.S in cui il paziente con il suo accompagnatore possano essere assistiti con maggior attenzione e con i servizi necessari. Molte persone con disabilità, infatti, devono fare i cateterismi, cambiare il pannolone e l'igiene è fondamentale. Invece, la prassi prevede tutt'altro: legare certe tipologie di pazienti ai letti, o somministrare tranquillanti per farli dormire.

fonte:http://www.superabile.it/

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